Bali: oltre la leggenda

Ci sono Paesi incantati, come la Thailandia o l’Italia, che vantano monumenti e una storia e cultura millenarie offuscati da una pessima fama, mentre altri, come l’isola di Bali – che si fregiano di possedere città, quali Ubud, considerate capitali dell’arte – che vivono di rendita tra paccottaglia da rigattiere e lasciti di artisti europei minori.

Come Chiang Mai, in Thailandia, Ubud è una città che sembra vecchia ma è stata, in realtà, in gran parte costruita (o ricostruita) in anni recenti. Al di là dei danni del terremoto del 1917 (al Palazzo Reale, ad esempio), il turismo di massa ne sta cambiando la fisionomia. La tipica dimora balinese, che penserete di scoprire in ogni guest house, è in realtà un edificio moderno che – parola degli stessi gerenti – i proprietari scelgono di costruire in stile per poter affittare a prezzi più elevati. Ecco, quindi, che a Bali quel senso di regalità e spiritualità che vi sembrerà di vedere ovunque perché tutti gli edifici sono simili – ossia, padiglioni con verande sorrette da colonnine squadrate e intarsiate, con tetti alti rinforzati da travi in legno scolpito e lavorazioni originariamente in pietra arenaria a decorare porte e finestre – e che accomuna templi (pura) largamente in fase di ristrutturazione, tempietti familiari e abitazioni per turisti, ha come autentica ragion d’essere la disponibilità economica del committente che può decidere o meno se far ricoprire gli intarsi di legno con una lamina d’oro o dorata e quanto far scolpire le parti in arenaria (ma ormai quasi sempre in cemento), dato che ogni lavorazione ha un costo e far sembrare una camera in affitto un padiglione reale anche. Non è perciò il bisogno di elevarsi verso qualche dio minore che dà lo sprone allo scalpellino o al nostro ospite sorridente, quanto il calcolo pratico di far somigliare una homestay o un B&B a una dimora principesca o a un tempio, per ricavarne il dovuto dal turista straniero estasiato (e disinformato).
Sempre della serie, una cosa è leggere un libro – tipo Mangia prega ama – e un’altra viverlo davvero, almeno tre aspetti della spiritualità di Bali ci lasciano alquanto basiti. Il primo è l’usanza di mettere dei cestini con fiori, riso e incenso fuori da ogni porta di negozio o abitazione. Sebbene sembri un’idea fascinosa (ed esotica) e, pur rispettando le tradizioni popolari, l’ammasso informe di pattume che si crea nelle strade di Ubud, tra caldo, escrementi dei cani randagi, pioggia, fanghiglia dei marciapiedi rotti (quasi un attentato alla vita del pedone, che spesso non trova riparo dai motociclisti nemmeno sui marciapiedi e rischia di doversi scusare con il cosiddetto “pacifico” – ma in realtà bellicoso – balinese perfino di esistere!) e calpestio di scarpe e infradito, verso sera assurge a livelli da discarica urbana. Il secondo è l’alto numero di falsi che ormai imperversa ovunque. Come riconoscere una qualsiasi produzione originale da un made in China? Si arriva al punto che il proprietario del negozio o, più spesso, della cosiddetta galleria d’arte, per provare l’unicità del pezzo (intagliato e non dipinto, ad esempio), sfreghi con un fiore colorato il pezzo stesso che così si imbratta al punto che non potrà mai più essere venduto. E, a quel punto, la dimostrazione assumerebbe un aspetto sinistro se non fosse ridicola: ma se quel pezzo fosse stato davvero di valore, il gallerista l’avrebbe trattato in quel modo? Si esce quindi dal negozio a prezzi italianissimi, meditabondi e perplessi, e ci si reca nel mercatino sulla via principale, dove si scopre che il prezzo è talmente volatile che si parte da cifre stratosferiche per scendere a: “Madame, tell you the price” – fino a dover scappare via, quasi rincorsi dai commercianti che ti chiedono di prenderti quel ninnolo che, guarda caso, assomiglia troppo al famoso pezzo unico del gallerista. Terzo e ultimo, l’uso ormai invalso tra i lettori di autobiografie di ricorrere ai guaritori locali che, al di là dell’importanza che possono avere nel sistema sanitario locale e nei riti di purificazione e guarigione tradizionali, sono ormai sinonimo di business. Del resto, se il turista occidentale è disposto a sborsare cifre importanti per farsi punzecchiare, manipolare o sputare addosso erbe masticate da denti corrosi per ritrovare il proprio sé o un equilibrio psico-fisico perso nel laico e pragmatico Occidente, è giusto che i balian si arricchiscano (salvo poi, in caso si cerchi un rimedio laico ed efficace, scoprire che gran parte dei negozi di Ubud vende dall’antibiotico al composto omeopatico, senza ricetta e a prezzi da capogiro).
Ma veniamo all’arte in senso stretto. I pura (ossia i templi), circondati da mura e cancellate sono quasi sempre chiusi al pubblico. Teoricamente dei cartelli indicano come si potrebbe entrare (ossia con quali vestiti) ma mai quando. Per quanto concerne il Palazzo di Ubud, ciò che è visitabile si riduce a un paio di cortili con qualche patio e un garage pieno di moto. Le gallerie d’arte (dove è impossibile, o quasi, vedere un prezzo scritto) espongono di tutto senza alcun criterio – tele di vario genere e stile, maschere, marionette, monili in argento, uova, teorici pezzi d’antichità, collane di conchiglie e rarissimi oggetti dell’età del bronzo che, se fossero tali, ci si chiede come mai gli uomini preistorici siano venuti tutti a Bali a venderli. Per non parlare dei (speriamo) finti corni di elefante (ma saranno di bue?) intagliati. Quasi tutti i pezzi che vedrete sono talmente unici che si possono tranquillamente trovare nel mercato coperto di Ubud (quello dove i venditori prima ti squadrano, poi azzardano un prezzo e poi ti rincorrono perché tu gli dica quanto intenderesti spendere). Del resto Warhol insegna: il futuro dell’arte è nella sua riproducibilità, quindi il made in China è perfettamente lecito e, anzi, cool (parafrasando ciò che scrivono certi visitatori sui quaderni, posti all’uscita dei musei di Ubud).
Non possiamo quindi che visitare anche noi questi stessi musei, dando alcune indicazioni di massima. Il Puri Lukisan (in centro) e il Neka Art Museum (raggiungibile tranquillamente a piedi) offrono una panoramica sull’arte balinese, soprattutto moderna e contemporanea. Un’arte, che è doveroso dire, non ha subito una profonda evoluzione – a differenza dell’occidentale – ma ha ripetuto pedissequamente stili e soggetti, colori e forme per secoli. L’influenza di alcuni artisti europei (soprattutto Walter Spies e Rudolf  Bonnet negli anni 30) oltre a dare slancio ai tentativi (già attuati) di svincolare la pittura dal soggetto religioso verso temi di vita quotidiana, porta in primo piano l’esigenza di confrontarsi con il disegno anatomico realistico, la prospettiva, l’immanenza del fatto dipinto (mentre, in precedenza, il quadro poteva contenere un susseguirsi di azioni o avvenimenti anche molto distanti nello spazio e/o nel tempo), l’uso del chiaroscuro e la trattazione della luce e del colore a fini espressivi (soprattutto grazie a Spies) e, infine, l’ombreggiatura e la ritrattistica (per cui si notino in particolar modo le opere coeve di Bonnet). Interessante la scoperta dei disegni a china di I Gusti Nyoman Lempad (umoristici e, nel contempo, dal chiaro intento pedagogico, senza però annoiare o appesantire le opere con segni estranei o sovrastrutture semantiche). Ben inseriti in giardini lussureggianti, i musei sono piacevoli da visitare sebbene in alcune parti qualche video esplicativo potrebbe forse sopperire all’eccesso di informazioni scritte che appesantiscono l’insieme e rendono difficile una fruizione per non addetti. Tenendo anche conto del fatto che il biglietto d’entrata in questi musei continua ad aumentare, sarebbe auspicabile renderli almeno minimamente multimediali  e fornire delle brochure informative così che il visitatore – anche in una sola visita – possa farsi un’idea più chiara dei movimenti e dei generi balinesi, evitando di provare la spiacevole sensazione di confusione che si avverte quando si venga in contatto con troppo materiale completamente estraneo alle nostre passate esperienze. Di pregio, infine, alcune sculture in legno, quasi sempre ospitate in spazi poco adatti o addirittura sotto vetro (il che ne impedisce sia la visione a 360° sia una fruizione esente da riflessi).
E infine molte guide consigliano una visita al Blanco Renaissance Museum. Antonio Blanco, colui che – apprendiamo subito – era chiamato il Dalí di Bali (come dire il Carmelo Bene di Calascibetta), a parte il baschetto che indossava sempre (così documentano le numerose foto) e un certo gusto barocco, non mostra altre somiglianze con il Maestro catalano. Il signor (anzi don, come ci avverte un’altra foto nella quale Blanco presenta il titolo conferitogli da Juan Carlos I di Spagna) Blanco non è né un esponente surrealista né la punta di diamante di una scuola o di un movimento di spicco. Mentre a Figueres si respira il genio fantasmagorico, irriverente, surreale o ferocemente sarcastico di Dalí, a Ubud si respira la pacchianeria roboante di un insieme di opere del genere La teta y la luna, dipinte con uno stile decisamente passé, a metà tra l’impressionismo di un De Nittis ritrattista del bel mondo parigino e il post-impressionismo di un Toulouse-Lautrec estimatore dei bassifondi di quella stessa Parigi. Nudi di donna declinati nelle più svariate pose, un antro della strega con visioni erotiche che sconfinano nel pornografico, qualche collage che mostra Blanco con Michael Jackson, il kitsch sublimato a meta turistica per babbei (noi compresi), dove non è il quadro a rendere importante la cornice ma viceversa (il che, vista l’opulenza di ogni cornice pensata, disegnata e realizzata dallo stesso Blanco, è solo un complimento). E per finire un video – che definire amatoriale è troppo – che racconta la vita di Blanco stesso dal suo arrivo a Singapore ai giorni nostri, ove si vedono le sue opere battute all’asta in tutto il mondo.
Dopo un’intera settimana immersi nell’arte e nella cultura di Ubud, finalmente capiamo una cosa: a Bali è meglio andare per risaie e campi. Lì dove risiede la vera bellezza.

Testo di Simona M. Frigerio
Fotografie di Luciano Uggè


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