Intervista a Giulio Iacchetti

giulio iacchetti 2Approfittiamo della presentazione alla stampa specializzata degli ultimi nati nella famiglia di tavoli Ademar, prodotti da Bross, per incontrare il noto designer nel suo studio milanese.

“Dove nascono le idee” è lo slogan scelto per questo open day allo studio di Giulio Iacchetti e noi non potevamo ignorare l’invito a esplorare la fucina di uno tra i designer italiani più estrosi del nuovo millennio, insignito già due volte del prestigioso Compasso d’Oro ADI – il più antico premio mondiale di design, istituito nel 1954 grazie a un’idea di Gio Ponti.
Le nostre attese non rimangono affatto deluse: lo studio, ricavato in un ex laboratorio artigianale sito al piano terra di un caseggiato di ringhiera, è saturo di prototipi di mobili ormai consegnati alla storia del design ed oggetti di uso quotidiano reiventati con spirito ludico. Seduto su una Eames Plastic Armchair di Vitra, Giulio Iacchetti risponde alle nostre domande.

Cosa si produceva in questi spazi prima che lei li trasformasse nel suo studio?
Giulio Iacchetti: «Era un laboratorio di pelletteria, vi si producevano cinturini di orologio. Quando siamo arrivati c’erano ancora i macchinari e i pellami».

Nel 2000, poco più che trentenne, con Matteo Ragni è insignito del Compasso d’Oro e Moscardino entra nella collezione del MoMA raggiungendo quello che, per molti designer, è un traguardo ambito. Il premio le ha spianato la strada e spalancato le porte?
G.I.: «Con Matteo Ragni, fratello/amico, c’eravamo fatti tante illusioni, ci chiedevamo cosa sarebbe successo l’indomani valutando addirittura l’ipotesi di dover assumere una segretaria che rispondesse al telefono. Invece, non successe nulla e ci fu un po’ di delusione dopo la grande gioia del premio. Eravamo tuttavia perfettamente consapevoli che la strada che avevamo scelto non era più solo un hobby, una situazione provvisoria, ma diventava in quel preciso momento la nostra professione, la nostra vita».

Dal design industriale con materiali innovativi di Moscardino, realizzato in Mater-Bi®, alla realtà di Internoitaliano che trae forza da una rete di laboratori e piccole aziende manifatturiere che lavorano i materiali della tradizione. Com’è nata l’esigenza di  questo ritorno all’artigianalità che, tra l’altro, rappresenta la nuova frontiera del design?
G.I.: «Non c’è nulla di più nuovo del legno. Trovo sbagliato e obsoleto parlare in termini di materiali innovativi. Il materiale innovativo invecchia a una velocità che fa paura: quello che ieri era innovativo, oggi è tremendamente vecchio. Non ho mai creduto nelle materioteche, o nella necessità di affidare il successo di un progetto alla validità di un nuovo materiale. Attenzione: con questo non voglio dire che la ricerca non valga o non vada portata avanti. Però, per certi oggetti, quali gli arredi o i complementi, il materiale alla fine non ha un’importanza centrale. Inoltre il legno ha così tante cose da dire che, se vogliamo, si rivela essere lui il materiale innovativo perché non ancora completamente indagato nelle sue potenzialità e nelle sue qualità. Diciamo che, per me, l’atteggiamento non è affatto cambiato. Prendiamo, per esempio, Moscardino: la sua carica innovativa non era tanto nel materiale quanto nell’aver combinato la funzione del cucchiaio con quella della forchetta in una forma armonica. Tra, l’altro Mater-Bi® era mal impiegato per Moscardino e, infatti, sono molto felice che ora lo realizzino anche in polipropilene perché così possiamo adottare il concetto di usa e riusa, rendendolo molto più ecologico e sostenibile».

Sono molti i fattori che concorrono nel definire un oggetto ecologico.
G.I.: «Sì. Dovremmo essere tutti un po’ più pragmatici rispetto a questi aspetti. Ci siamo riempiti la bocca, tanti anni fa, parlando di sostenibilità e biodegradabilità con un usa-e-getta intelligente. Io penso che l’usa-e-getta non sia mai troppo intelligente a partire dalla parola usa-e-getta: ma perché? Usa-e-riusa».

Nella stanza qui a fianco abbiamo visto Pula (2015), la scopa realizzata con materiali naturali quali  legno di faggio e saggina. Lei ha, in un certo qual modo, ridato dignità a oggetti poveri che soddisfano necessità basilari della vita quotidiana. Viene prima la funzione o la forma?
G.I.: «Ha presente quelle situazioni rare e piene di pathos quando, al termine di una gara, due atleti si prendono per mano e arrivano al traguardo insieme, spronandosi a vicenda? Ecco, il progetto è questa cosa qua: forma e funzione si abbracciano e non si riesce più a capire chi prevalga sull’altro. Sono una cosa unica e, generalmente, si tratta di una cosa bella; il dualismo tra le due componenti, inteso come antagonismo, non ha più motivo di essere. Nei progetti che io reputo intelligenti la coesione tra i due fattori è così forte che non è importante capire quello che prevalga perché tutto confluisce e coincide in una parola: bello. E bello è sostanza».
 
Cos’è il lusso per lei?
G.I.: «Il lusso è il contrario del progetto».

Ha progettato gli oggetti più disparati tra cui persino Surf-o-Morph, le tavole da surf presentate lo scorso anno.Con cosa non si è ancora cimentato ma le piacerebbe progettare?
G.I.: «Ovviamente mancano tante cose all’appello. Il mio lavoro, in fondo, rappresenta anche il tentativo di dimostrare alle nuove leve che tutto è progetto. Sin dalle origini della nostra professione, la sedia, la lampada, la posata, la maniglia sono tutti elementi cardine del curriculum di un designer che si reputi tale. Oggi i confini si sono così dilatati, e si devono ulteriormente dilatare, che il messaggio che voglio trasferire alle nuove generazioni – oltre al piacere di percorrere strade nuove – è quello di dire: “Tutto è progetto! Guardatevi attorno e vedrete che c’è bisogno di un progetto anche per i tombini. Non solo per gli arredi e le lampade, perché quelli sono oggetti già canonizzati dal punto di vista del design”. Il design è una prateria immensa e bisogna galoppare».

Quali sono i riferimenti che hanno segnato la sua esperienza professionale?
G.I.: «Davvero molti. Ogni tanto, nel corso della carriera, capita di focalizzarsi su lavori o esperienze e, studiandole a fondo, ce ne si innamora. Il designer, secondo me, è una persona che si innamora di frequente e, sovente, di più soggetti contemporaneamente. I miei maestri sono, per esempio, Alberto Meda e Dennis Santachiara. Ammiro l’intelligenza di Franco Raggi, la libertà di Alessandro Mendini, la capacità pragmatica progettuale di Marco Ferreri e, naturalmente, la solidità politica di Enzo Mari. Sopra tutti costoro, come un dio, c’è Sottsass. Credo che un giorno, tra qualche secolo, parleranno di lui come oggi si parla di Leonardo. Era un artista totale: dall’architettura all’oggetto, dall’arte alla fotografia, senza dimenticare la scrittura. Esprimeva la propria genialità in ogni disciplina ma, soprattutto, sapeva smaterializzare le cose, i pensieri ritenuti canonici. Per esempio, ho letto recentemente una sua affermazione che mi ha riempito di stupore ma anche di allegria: “Il designer lavora per ridurre sempre più gli spessori, invece le cose devono avere uno spessore percepibile, grosso”. Bellissimo! Un pensiero quasi anacronistico ma ancora oggi valido controcorrente – che lega un concetto architetturale all’oggetto. Leggere Sottsass è come leggere la Bibbia: ogni volta scopri un concetto, un’idea geniale che, in precedenza, non avevi colto. Dipende poi come lo interpreti. E io non leggo la Bibbia».

Dei tavoli Ademar ci piace molto il dettaglio dell’attaccatura della gamba al piano. Con i tavolini bassi, purtroppo, si nota ancor meno che nel tavolo grande – però è bello constatare che curi il progetto a 360 gradi, studiando il dettaglio anche se situato nel punto dove l’occhio non cade.
G.I.: «Questo dettaglio si perde in genere in tutti i tavoli. Dobbiamo lasciare la libertà alle persone di comprare un tavolo perché è un tavolo. Se qualcuno vuole saperne un po’ di più guarda sotto, se vuole sapere altro va a cercare informazioni sull’azienda. Poi si può navigare in Internet per avere informazioni sul designer di quell’azienda: la conoscenza delle cose è commisurata alla curiosità della persona. Evocazione per evocazione, ricerca per ricerca, uno può approfondire quanto vuole e questo, secondo me, è un punto a favore di questa nostra modernità. Gli oggetti devono avere una storia da raccontare ma non deve essere obbligatorio stare ad ascoltarla. Uno va su Google e prova il piacere della scoperta. Per questo non è necessario mettere tutto in cartella stampa».
 
Ci fa una classifica dei materiali con i quali preferisce lavorare?
G.I.: «Ogni volta che ci si cala in un contesto progettuale e industriale ci sono materiali che possono raccontare una storia e la possono raccontare solo loro. Forzare i limiti è un po’ sciocco, secondo me. Non ha senso, per esempio, assottigliare il legno come un foglio di lamiera. Perché, allora, non usare un foglio di lamiera? Oltre al tempo perso, il legno non è performante come la lamiera. Dimostrare l’irrazionalità di un pensiero solo per far risaltare la maestria è una deriva artigianale che non mi interessa: sono soliloqui di designer che pretendono di cambiare la natura delle cose come fossero dei. Il materiale parla, ma ci prendiamo il tempo di ascoltarlo? Le sue prestazioni arrivano fino a un certo punto, poi c’è l’area grigia che è l’area della ricerca ma, superato quel confine, è tutto un controsenso: costa tanto, non è performante, si rompe, è fragile o è pesante. Perché, dunque, ostinarsi a volerlo utilizzare per quel progetto?».

Silvana Costa e Rosario Adamo

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www.giulioiacchetti.com

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