Intervista a Wang Shu

“I suoi edifici riescono ad aprire nuovi orizzonti e, al contempo, ad armonizzarsi col contesto e la memoria e hanno la prerogativa unica di riuscire a evocare il passato senza tuttavia citare direttamente la storia”: questa la motivazione del Pritzker. Noi abbiamo voluto conoscerlo per approfondire.
Incontriamo l’architetto Wang Shu a Milano, alla Triennale, dove è giunto per inaugurare una mostra che fa il punto sull’architettura cinese. Il nostro intento è indagare la filosofia progettuale di questo architetto non ancora cinquantenne ma già insignito del massimo riconoscimento della categoria. È il primo cinese a ricevere il Premio Pritzker e ci sorge il dubbio che il riconoscimento gli sia stato conferito più per la necessità di controbilanciare l’egemonia occidentale che per effettivi meriti. Parlando con lui, però, abbiamo realizzato di essere al cospetto di un poeta che ama il proprio lavoro, che trae ispirazione dalle pitture antiche, che disegna ancora a mano ogni suo progetto ma, soprattutto, che presta grande attenzione alla tradizione e al contesto in cui lavora al fine di valorizzare l’ambiente urbano.

Benvenuto a Milano. Ci auguriamo che, nonostante i tanti incontri, abbia avuto modo di fare un giro per città.
Wang Shu: «Oggi, dopo pranzo, sono andato a visitare la basilica di Sant’Ambrogio e vedendola ho esclamato “Oh, questa sembra opera mia!”. Scherzo, ma in realtà è un esempio per spiegare alcune importanti similitudini tra le nostre culture. Per realizzare l’edifico di epoca romanica sono stati impiegati molti materiali di recupero e ri-utilizzati elementi di epoche diverse, ri-costruendo su elementi preesistenti; anche io, nel progettare i miei edifici, ho cura che siano usati materiali provenienti da demolizioni: questo si chiama riciclaggio. Questo significa che le tradizioni costruttive dei nostri Paesi non sono poi così distanti».

Deduciamo quindi che una dalle parole chiave per descrivere i suoi lavori sia sostenibilità.
W. S.: «Devo fare una premessa: detesto le scelte costose quanto quelle illogiche. Ritengo che il punto di approccio alla questione ambientale sia come salvaguardare le risorse disponibili ma, allo stesso tempo, anche come non eccedere con gli aspetti tecnologici: tra le versioni di uno stesso dispositivo presenti sul mercato, è indubbiamente il modello base quello che ci consente un maggior risparmio di risorse. Personalmente, quando devo scegliere un prodotto, non mi lascio condizionare dalla marca ma dal livello tecnologico e quando quest’ultimo eccede in complessità – rendendo addirittura complicato l’utilizzo – allora lo scarto a priori non curandomi né della marca né del design. Analogamente applico lo stesso criterio agli edifici».

Qual è, a suo avviso, l’elemento o la fase più importante della progettazione?
W. S.: «L’elemento più importante è il paesaggio: attorno e dentro un edificio, nella città salendo sino alla larga scala che arriva ad includere l’intero mondo. Esiste una lunga tradizione pittorica di rappresentazione del paesaggio, se voi visitate la Cina potrete rendervi conto dell’importanza anche a livello simbolico dell’elemento naturale, della presenza degli alberi alternati ad arbusti, prati e specchi d’acqua».

Ci viene spontaneo inserirla nel gruppo degli esponenti del regionalismo critico perciò le chiediamo di sintetizzare per i nostri lettori la sua filosofia progettuale.
W. S.: «In Cina, lo ammetto, abbiamo una grave lacuna: gli architetti non usano teorizzare il proprio approccio progettuale e i filosofi dissertano di principi operativi che si rivelano estremamente differenti da quanto in realtà vediamo costruito nelle nostre città. Diffidate dunque dei grandi discorsi teorici sull’architettura del mio Paese! Parlare in Cina di architettura cinese, della sua storia e dei suoi metodi costruttivi non è una cosa naturale. Pensate che tre anni fa ho tenuto una lezione a Beijing e gli studenti, perplessi, mi interrogavano sulla necessità di studiare architettura e design cinese. Per me, capire il mio passato è una cosa naturale e necessaria per realizzare edifici a tutti gli effetti moderni ma in grado di coesistere con le preesistenze, dialogandovi, e creando un paesaggio urbano armonico. Purtroppo molti miei colleghi ignorano le tradizioni e il risultato sono città ormai irriconoscibili rispetto a vent’anni fa. Sono cambiate o, meglio, sono state distrutte e ricostruite: interi quartieri con i tipici edifici bassi sono stati rasi al suolo e rimpiazzati da grattacieli dallo stile internazionale, alla moda, opera delle archistar o di chi ne subisce il fascino. Come reagireste se vi dicessero che Milano appare vecchia, che non è abbastanza alla moda e i suoi edifici non abbastanza proiettati verso l’alto? Se vi accorgeste che stanno demolendo il 90% del costruito per rimpiazzarlo con grattacieli? Questo è quello che è successo in molte città del mio Paese: non lo accetto. La missione del mio studio è cercare di andare oltre l’atteggiamento di noia generale quando parlo di cultura tradizionale; di salvaguardare o ripristinare il paesaggio prendendo come punto di riferimento le vedute dipinte secoli fa. Non vogliamo realizzare copie ma creare segni sul territorio in continuità col passato che siano le basi per lo sviluppo futuro».

Cosa pensa delle trasformazioni in atto a Milano? Ritiene che siano compatibili con la tradizione o piuttosto siano il gesto, senza attenzione al contesto, dell’archistar di turno?
W. S.: «In realtà il concetto di tradizione è molto ambiguo e lo si può manipolare astutamente in funzione della situazione. Ho capito che, per voi europei, lo stesso possa divenire un elemento estremamente vincolante. Mi spiego meglio: sono stato tante volte in Italia e, visitando le città d’arte, mi guardavo attorno esclamando in continuazione “Come è interessante! Che bello! È fantastico!”, senza fermarmi a distinguere tra l’antico, quanto realizzato nel passato recente e il contemporaneo. Mi limitavo ad apprezzarne l’insieme, ad ammirare l’equilibrio che si è creato con la somma degli interventi di epoche diverse. Nelle città europee si è fatto un lavoro di conservazione encomiabile e di restauro del patrimonio storico. Io, però, ritengo che le città, come un organismo vivente, necessitino di svilupparsi, in maniera naturale, gradualmente. Servono i cambiamenti e serve che si impari ad accettare le trasformazioni anche all’interno dei centri storici. Ovviamente alludo a nuovi interventi con edifici che denuncino la loro modernità ma siano di qualità e di dimensioni proporzionate all’esistente: a queste condizioni passato e contemporaneo possono certamente coesistere, anzi devono farlo perché dobbiamo accettare l’idea che la storia prosegua. Se la storia si dovesse fermare, non esisterebbe più».

Nel 2015 Milano ospiterà l’Expo. Lei ha contribuito con il padiglione di Ningbo a l’Expo organizzata nel 2010 a Shanghai: ci faccia un bilancio della sua esperienza diretta, delle sue impressioni sull’evento.
W. S.: «Lo slogan scelto era Better city, better life – ma io non lo condivido sia perché in lingua cinese il concetto suonava diversamente – la città permette una vita migliore – sia perché, più che sulla città in sé, la nostra attenzione dovrebbe porsi sulla qualità di vita dei suoi abitanti. Quando mi è stato chiesto dall’Amministrazione di Ningbo di progettare il loro padiglione per l’evento ho accettato perché non mi veniva imposto di creare un nucleo urbano ideale ma solo un padiglione. Ho tratto ispirazione dalla tradizione, ho studiato i dipinti di quell’area dai quali ho tratto informazioni utili sugli usi abitativi locali. Il risultato è un padiglione espositivo che è anche un esempio di abitazione collettiva dove 3/4 famiglie possano vivere insieme condividendo, al primo piano, spazi – quali un piccolo laboratorio o altri servizi in comune. La coabitazione era un’esperienza diffusa nelle aree rurali come metodo di contenimento dell’uso del suolo per fini non agricoli».

Il nome del suo studio sembra una dichiarazione di intenti: Amateur Architecture Studio.
W. S.: «Il mio è un piccolo studio, fondato nel 1997: io e mia moglie Lu Wenyu siamo i soci fondatori – con noi lavorano sei, sette assistenti che progettano e costruiscono. Questa dimensione mi consente di poter seguire con la dovuta attenzione ogni singolo lavoro che scelgo – con assoluta indipendenza – di fare. Sì, lavoro ancora per il piacere di fare architettura nel rispetto della tradizione e del contesto».

Silvana Costa


immagini tratte da www.pritzkerprize.com
Ningbo Tengtou Pavilion, Shanghai Expo, 2010, Shanghai, China – fotografia di Fu Xing
Xiangshan Campus, China Academy of Art, Phase II, 2004-2007, Hangzhou, China- fotografia di Lv Hengzhong
Ningbo History Museum, 2003-2008, Ningbo, China – fotografia di Lv Hengzhong

La mostra continua:
Triennale di Milano
viale Alemagna, 6 – Milano
orari: da martedì a domenica, ore 10.30-20.30; giovedì, ore 10.30-23.00 (lunedì chiuso)
ingresso gratuito
www.triennale.org

La mostra correlata continua:
From research to design
Selected architects from Tongji University of Shanghai
a cura di Li Xiangning
comitato scientifico Chen Yi, Tiziano Cattaneo, Ioanni Delsante
organizzata da Triennale di Milano e Corso di Laurea in Ingegneria Edile/Architettura dell’Università di Pavia
fino a domenica 23 settembre 2012

Questa voce è stata pubblicata in interviste&opinioni, Milano, Triennale e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.

I commenti sono chiusi.