Incontro con Walter Meregalli

L’autore, specializzato in fotografia di viaggio, fa un bilancio della propria esperienza nell’India misteriosa, tra falsi miti e nuove verità.

Inutile negarlo: i reportage realizzati da Steve McCurry in giro per il mondo – anche in zone molto calde del Pianeta – hanno contribuito a costruire nell’immaginario collettivo un’idea precisa delle terre lontane. Dell’India per esempio, con la straordinaria esplosione di colori della natura lussureggiante, delle architetture variopinte e della gente che la abita.
Il volume Cartoline da Bombay, che raccoglie una trentina di fotografie di Walter Meregalli, propone una differente visione del Paese, svelandoci volti e sfumature distanti da quelle del fotografo statunitense ma egualmente intensi e coinvolgenti. Meregalli in realtà rimuove il colore dai suoi scatti e sfrutta la severità del bianco e nero per andare oltre la maschera indossata dagli indiani per compiacere i turisti. Le cartoline non cercano lo stupore a tutti i costi eppure colpiscono per la straordinaria forza narrativa di un fotografo curioso e innamorato dell’India al punto da destinare parte degli introiti derivati dalla vendita di Cartoline da Bombay a Care&Share, un’associazione che da più di vent’anni si occupa della salute e dell’istruzione dei bambini dell’Andhra Pradesh, una delle zone più povere dell’India.
Incontriamo il fotografo alla libreria Hoepli di Milano e lo ascoltiamo narrare come è nato il libro.

Le origini di un amore ormai ventennale.
Walter Meregalli: «L’India è un Paese con una storia millenaria e una stratificazione sociale davvero molto complessa. Confesso che inizialmente l’odiavo, preferendole il Nepal che mi trasmetteva un’idea di maggior purezza. Mi piace inoltre scalare e da bambino sognavo di vedere l’Himalaya così, non appena mi è stato possibile, ci sono andato e ci sono poi tornato molte altre volte per fare trekking. Alternavo il trekking all’esplorazione del Paese portando sempre con me, come una naturale propaggine del mio corpo, l’attrezzatura fotografica. Purtroppo, a parte Katmandu, le altre città del Nepal sono poco più che villaggioni così ho dovuto iniziare a visitare anche l’India. All’inizio ero molto poco attratto da quella terra poi, piano piano, anche grazie alla fotografia, è scattato un meccanismo che mi ha fatto apprezzare scenari che non avrei potuto trovare in nessun’altro luogo. Da allora non solo ci torno regolarmente ma sono pure scaturite opportunità di lavoro sia come fotografo sia conducendovi gruppi di fotografi amatoriali. È un Paese che concede molto e non è pericoloso, per i turisti almeno perché tra di loro è tutta un’altra storia».

Il rapporto con la gente del luogo.
W.M.: «Torno in India da ormai una ventina d’anni, 2 o 3 volte l’anno, ma posso affermare di iniziare a conoscerla bene solo adesso. Mi ha aiutato molto studiare una delle loro tante lingue: ti rispettano se avvertono che c’è volontà di avvicinarti, di andare oltre lo stereotipo per conoscerli davvero.
Sono persone vanitose all’ennesima potenza e si farebbero fotografare sempre e comunque. La cosa buffa è che anche loro fotografano te, senza sosta, per avere nel telefono l’immagine dello straniero con i capelli biondi e la carnagione chiara. Gli unici che rifiutano di farsi fotografare sono gli aderenti ad alcune sette, per motivazioni religiose. Per il resto si ha a disposizione un patrimonio di un miliardo e 300 milioni di volti con storie incredibili alle spalle. Bombay per esempio offre storie di degrado, di denuncia o di religione; è una città dalla forte stratificazione edilizia, culturale e sociale, ben al di là di quanto si possa immaginare».

Bombay vs Mumbai
W.M.: «Sulla spinta di un certo fervore integralista qualche anno fa Bombay è stata ribattezzata Mumbai, sorte toccata anche ad altre importanti città del Paese. Mi sono sforzato di allinearmi ma ogni volta che ci torno la città si ostina a mostrarmi la sua secolare storia e io non posso non chiamarla con il suo nome originale.
Bombay in realtà non esiste: è un agglomerato di 7 isole che prima dell’arrivo degli europei non erano collegate tra loro. I portoghesi vi si insediano nel XVI secolo e le battezzano boa bahia – bella baia -; un secolo più tardi cedono le isole agli inglesi che cominciano a posare detriti per compattarle in un’unica penisola. L’attuale Bombay è dunque una città relativamente giovane, creata dal nulla. Camminando tra i vicoli senti la forza che tiene insieme le isole: è la stessa forza che tiene insieme l’India, un subcontinente talmente variegato da essere difficile descriverlo. Non si creda nel motto “uniti nella diversità”: nel Paese si contano numerose etnie, lingue e religioni e la popolazione è unita solo apparentemente. Per noi stranieri non è evidente ma per loro è un costante camminare su una superficie dove sotto scorre un magma di ira, violenza e lotte religiose».

Bombay oggi.
W.M.: «Nella baia di Bombay sorge l’isola di Gharapuri: dista circa un’ora di traghetto dalla terraferma e ospita le Elephanta caves, una serie di grotte scolpite tra il V e l’VIII secolo d.C. Un sito archeologico shivaista molto bello ma mal tenuto: pochissimi sono i monumenti ben conservati. L’attaccamento degli indiani per la storia è forte sino a che te lo devono buttare in faccia ma poi non dimostrano gran senso civico.
Mentre ti allontani in traghetto dalla terraferma puoi vedere parte di uno skyline lungo oltre 50 chilometri. I grattacieli moderni sono solo la facciata di una città che scende via via in altezza sino agli slum. All’interno ci sono quartieri dove cammini e credi viga una legge di gravità tutta sua, con edifici dall’equilibrio precario, in parte marciti per colpa della salsedine, che paiono dover crollare da un momento all’altro ma nulla lì crollerà mai».

Le Cartoline da Bombay.
W.M.: «Il soggetto è la città. Sono partito da un nucleo di un centinaio di foto, scattate nell’arco di pochi giorni, e ho fatto la scelta finale. Ho curato personalmente l’editing del libro per essere sicuro di raccontare la città a modo mio. C’erano foto che forse mi piacevano di più ma l’esperienza mi ha insegnato cosa funzioni in un libro e cosa no. Ho puntato su foto che potessero venire riportate in bianco e nero, scelta se vogliamo inconsueta perché l’India offre davvero una serie di opportunità cromatiche incredibili. Il mio intento è mostrare l’anima della città e i colori distrarrebbero.
Qualche volta bisogna scordarsi Steve McCurry – che io venero anche per il coraggio dimostrato con i reportage in zone di guerra – e provare a  guardare ad autori come Raghu Rai che offre una visione diametralmente opposta di quegli stessi luoghi, in bianco e nero, raccontando l’India da indiano.
Probabilmente in queste foto non ritroverete l’India che avete in testa, se così succedesse io sarò molto contento perché vuol dire che sono riuscito a centrare l’obiettivo. È un paese che sono partito odiandolo nella maniera più assoluta – c’è chi mi dice devo avere un trascorso di vite da inglese – ma ho finito per amarlo molto».

L’India secondo Walter Meregalli
W.M.: «È come se l’India fosse ostaggio di un paradosso, di una bugia. Noi andiamo in India attratti da stereotipi – i maharaja, l’ayurveda, il massaggio, lo shanti, l’om, Shantaram – ma questa India non esiste più, se mai è esistita, così gli indiani, pur di accaparrarsi il nostro beneplacito, ci vendono quello che andiamo cercando. Sono bravissimi a dar vita ai sogni: ce li vendono al prezzo che vogliono loro, nei modi che vogliono loro, facendoci pure credere che li abbiamo pagati poco. Sono eccezionali.
Ognuno porta a casa quello che sta cercando. Nei 30 scatti di Cartoline da Bombay ci sono le sensazioni che mi dà la città, al di là che siano vere o meno. C’è una foto alla quale sono molto legato: un gonfiabile di Ganesh, parcheggiato in una specie di rimessa. Sembra una statua ma è un gonfiabile, fatto benissimo, e dopo qualche giorno avrebbe sfilato per strada in occasione di Chaturthi, il festival che celebra la nascita del dio Ganesh, e le persone gli avrebbero rivolto preghiere e chiesto intercessioni. La cosa su cui riflettere è che forse è l’espressione più finta possibile di una religione – è un gonfiabile, sembra un gioco per bambini – eppure a loro non importa: nel momento in cui è gonfiato e messo su un carretto e trasportato in strada quel Ganesh ha tutte le potenzialità di una qualsiasi statua in un qualsiasi tempio.
Faccio un altro esempio: a Varanasi, ai ghat, trovi figuranti che trascorrono la vita sotto l’ombrellino in attesa di ricevere soldi per essere fotografati; se ci si sposta nell’entroterra si incontra gente che ha scelto di fare quella stessa vita sul serio, per scelta esistenziale, non economica. Non chiediamoci ora quale delle due situazioni sia vera: sono vere entrambe, dipende quando si parte cosa ci si aspetta di incontrare».

Lo skyline moderno fa da sfondo a molte delle Cartoline da Bombay che, se non fosse per la carnagione scura e per i tratti somatici dei protagonisti, potrebbero essere state realizzate in qualsiasi città occidentale. È dunque quella l’India vera?
W.M.: «Per la copertina del libro ho scelto il ritratto di un bambino che stringe un mazzo di fiori. I bambini che ho incontrato in realtà sono due: il primo vende un po’ di tutto mentre quello della foto ha deciso di puntare su un marketing monoprodotto e percorre ogni giorno il lungomare di Bombay vendendo solo rose con una determinazione tale che non ho visto quasi mai. Lui riesce a scartare gli ostacoli, selezionare i potenziali clienti e non fermarsi ai primi no: la disperazione e la fame lo mandano avanti e lo obbligano a ingegnarsi. Sfrutta le 4-5 ore di luce del pomeriggio e percorre chilometri su chilometri col suo mazzo di rose da vendere. L’ho seguito per una decina di minuti per fotografarlo come volevo io. Rappresenta l’India vera, non è l’India vera? Non lo so. Io in quel momento lo avevo di fronte, mi bastava. Per me costituiva un aspetto verosimile, o decisamente vero, di quella città».

Consigli di viaggio per un amante della fotografia.
W.M.: «È fondamentale arrivare preparati perché solo così si possono tirare fuori storie che non siano superficiali. Serve conoscere cosa si può vedere, studiare la logistica – come muoversi, le distanze, i tempi di percorrenza – e quindi dividere le giornate in albe, tramonti e quanto ci sta in mezzo. Come i professionisti, che sul posto hanno i fixer ad attenderli, può essere utile pagare guide che aiutino a non sprecare tempo; consiglio inoltre di imparare 5-10 frasi della lingua locale e usarle tutte.
Va evitato di comportarsi come quelli che io chiamo “il colonialista 2.0”, una persona schifata da tutto e che non vede l’ora di tornare a casa, e “l’occidentali’s karma” che dopo un minuto è più induista degli induisti. Serve trovare una via di mezzo che aiuti a entrare in contatto con la popolazione ospite senza necessariamente sposarne tutto il modo di vivere: basta rispettarli, il che non è poco».

Silvana Costa

https://waltermeregallifoto.com/

Il libro:
Cartoline da Bombay
di Walter Meregalli
21×15 cm, 64 pagine, copertina morbida, brossura
prezzo 17,50 Euro

Questa voce è stata pubblicata in fotografia&cinema, interviste&opinioni, libri&musica e contrassegnata con , , , , , , . Contrassegna il permalink.

I commenti sono chiusi.