Inequilibrio Festival 2018 | 1 luglio

La domenica al Castello Pasquini è ancora all’insegna del Festival.

Un altro pomeriggio metà assolato, metà assonnato, tutto chiazzato per effetto dei pini, per i Macchiaioli che hanno soggiornato qua. Ieri era danza, stasera giocheremo di prosa. Ieri era il senso a dire le angosce dell’animo. Stasera torniamo alla dea parola, di strade intricate ma delineate.
Nella Sala del Camino, alle 18.30, si riempiono gli spalti sotto luci in picchiata. Si accende la scena sul quadro, sul drappo che cade e la faccia che cela. È la Galleria Borghese, dove l’uomo contrasta il Tempo. Prigione della sua cornice, un Caravaggio scruta la sala.
The Ghepards presentano La Fanciulla col Canestro di Frutta. Lui è Mario Minniti, pittore di Siracusa, che quasi nessuno ricorda, ma di cui tutti rammentano la faccia, immortalata dal Merisi nell’opera giovanile. In una successione di dialoghi brillanti, mai banali, nonostante il tono leggero che adottano, il ragazzo conduce l’ennesima giornata di noia, imprecando al fittizio interesse dei turisti e alla non-vita in cui il grande milanese l’ha voluto confinare nell’istante stesso in cui ha steso sulla tela la prima pennellata. La domanda-mantra percorre tutti i sessanta minuti di spettacolo: “chi sono?“.
Ed è quello il dramma che accomuna i cimeli della Galleria, ridotti a teorici consumati di una filosofia destinata a rimanere impraticata, dunque incompiuta: Mario è soggetto, certo; ma un tempo, prima, è stato a sua volta artista. E la presenza di Caravaggio, figura patriarcale, un poco dietro e un poco sopra di lui, dentro il dipinto, celato allo sguardo del pubblico – è Minniti stesso a farne le veci, occhi e voce aggrottati – esercita sul poveretto l’autorità del creatore-padrone. Ruoli intercambiabili, nel momento in cui la parola va al Cristo delle Stimmate, opera di Mario e suo sottomesso, in questo gioco di gerarchie che ricorda un poco la Trinità nicena. E a quest’ultimo passa il dubbio dell’artista-opera, subendo un’ulteriore trasformazione: Cristo o immagine di Cristo? Figlio sì, ma di che Padre?
Altre figure si affacciano alla scena, meno tormentate, forse più inconsapevoli della tirannica situazione: l’autoritratto di Van Gogh, in cui artista e soggetto coincidono; la ballerina di Degas che, come oggetto di fruizione era nata già prima, e non avrebbe potuto augurarsi di meglio; il Concetto Spaziale di Fontana, tutto preso dal suo grido ribelle, disincantato dal proprio io. E un ritratto straziato di Picasso, che un io proprio ricorda a malapena di averlo, avendo perduto da tempo gli stessi connotati umani. L’arrivo dell’Ophelia di Millais raddoppia i problemi di Minniti: dipinto o persona? E che persona, poi? Ophelia o Lizzie Siddal? Bisognerebbe maledire Millais, che ha fatto patire quest’ultima nell’acqua, mentre posava; o Amleto, che nell’acqua l’ha lasciata annegare? E su questo tema cardine si spazia per un’ora, giocando su citazioni, cambi di registro e – sorpresa? – tableaux vivants. A un’Ophelia/Lizzie che, mescolate tra loro le identità, si allontana recitando confusamente il monologo del dubbio amletico; si accompagna la fantasia oscena dell’angelo delle stimmate – più popolana e repressa che creatura celeste, come tutte le icone di scuola caravaggesca. L’uso del francese per il pianto picassiano calca, consapevolmente o meno, sul senso di frastornamento dei personaggi e sulla fondamentale incomunicabilità che li fa scontrare tra loro, rimanenze di mondi distanti e impossibilitati a coabitare. Lo stesso angelo sordomuto, che si esprime a segni a partire da un inconveniente teatrale – l’impossibilità di imparare il suo copione in un tempo troppo ristretto – riesce a trasformare l’ingegnosa soluzione in un ulteriore spunto di riflessione; ossia il fatto che, nell’opera pittorica, sia proprio l’angelo ritratto a capo chino, di fatto privo della bocca, a non proferire parola e che questo contribuisca a stuzzicare la fantasia del pubblico. Neppure Monna Lisa, preda ormai del proprio stesso divismo, può svellere il dubbio dai cuori. Anzi, parrebbe quasi levare ai noi poveretti l’unica consapevolezza che finora era rimasta indiscussa: la loro essenza di capolavoro. Chicca centrale, che  titola la rappresentazione, è il monologo della custode che, in brillante dialetto  settentrionale, mette in dubbio lo stesso genere sessuale di Minniti, etichettandolo come fanciulla. E già qui, come nell’epilogo, c’è la rottura della quarta parete, a esporre un pubblico di voyeur, ma anche di soggetti principali, dacché ogni opera d’arte è espressione dell’umano.

Come la parola. Già, la parola. Dopo i Ghepards, così visivi, è la volta dell’orecchio di Amleto Take Away, alle 19.45. La location, un nome per un programma, è proprio l’Auditorium.
Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, pugliese il primo ed emiliana la seconda, portano in scena un’elaborazione tragicomica del capolavoro del Bardo, scegliendo per focus principale le insidie della comunicazione contemporanea, ormai banalizzata dal dilagare della rete, con la sua corsa all’etichetta e alla definizione. Il principe danese, simbolo universale di una ricerca infruttuosa, inganna, ed è a sua volta ingannato da un mondo che ha perduto di autenticità. Lo spettacolo, che dilata il monologo amletico per lo spazio di un’ora, ci presenta un tormentato dei tempi odierni, messo in croce dal suo stesso sipario, in questa realtà paradossale in cui tutti recitano e prosperano, salvo il disgraziato che lo fa di professione. L’esperienza autobiografica di Berardi, non vedente a seguito di malattia, si sovrappone alle vicende dell’eroe shakespeariano, ricalcando nomi e stati d’animo caratteristici, nonché il concetto del play within the play, che dà all’opera il calcio d’avvio. Quel calcio che si riflette addosso al protagonista, con t-shirt interista, dunque da buttare in pasto al campo.
Il padre, mistica figura da onorare e riscattare, impera sul moderno Amleto col medesimo carico di tradizione e mos maiorum, benché tutt’altro che aulico: lasci il teatro al mondo delle passioni personali e pensi piuttosto a impararsi un mestiere. E, contrapposta all’insegnamento paterno, la mistica del social network, che sposta la contrapposizione dell’”essere o non essere” su un piano ormai consolidato: essere o apparire? “To be or FB?”. E se Ophelia resta pallida creatura tradita, piantata in asso da una chat segreta con l’ennesima milf virtuale, a riassumere la sua morte basta un secchio d’acqua riempito di fiori. E proprio quei fiori, disposti sul pavimento, diventano la strada bagnata rivolta alla conclusione: ancora crocefissione, col mondo/apparenza/passione a schiacciarla senza possibilità di appello. Come i Ghepards, neppure Berardi e Casolari hanno una risposta al dilagare del dubbio. Ciascuno ha la propria croce e gli tocca portarsela. D’altronde il teatro offre domande, non risposte, il che non è poco.

O meglio, qualcosa di simile a una risposta esiste: e lo troviamo alle 22.15, nella Sala del Ricamo, dove Luca Scarlini recupera la trama delle sue donne impavide, iniziata il giorno precedente. E anche qui, non avrebbero potuto trovare stanza più appropriata. Il circolo della danza, ieri più erotico e oggi più bellico avanza nel suo tracciato: spicca l’Aerodanza di Giannina Censi, ballerina futurista adorata da Filippo Tommaso Marinetti, schiena ritorta nell’argento di carta stagnola; e Milča Mayerova, la militante comunista, la cui danza reinventa le lettere sugli abbecedari. E se la mistica nostalgia evocata ad Ascona da Charlotte Bara, che è pallida e ieratica come avorio egiziano, si fa madre di una poetica un po’ gotica e un po’ faraonica, guadagnandosi il titolo di danzatrice delle cattedrali; Maria Ricotti, poco più che bambina, ammalia vestita da ninfa, per poi morirsene ingoiata da un film, degli anni Settanta, di dubbio successo. Tra un passato e un futuro che coesistono e si scontrano in scena, ci tocca fare i conti col fatto che non saremo qui domani, ad assistere all’ultima parte della trilogia. L’opera di Scarlini è dunque, in questi articoli, destinata a un’osservazione parziale.
E allo stesso modo non vedremo la selezione pop-mitologica di Guido Bartoli, autore dell’angelo fragile di locandina, al Castello dal 4 luglio al 2 settembre.

Ce ne andiamo, lasciamo cose a metà. Alla fine non si può pensare, dalla Terra, di abbracciare con uno sguardo la Galassia intera.

Sharon Tofanelli

Gli spettacoli sono andati in scena nell’ambito di Inequilibrio Festival 2018:
Castello Pasquini, varie location
Castiglioncello (LI)
htts://armunia.eu

domenica 1 luglio, ore 18.30
The Ghepards presentano:
La fanciulla con la cesta di frutta
prima nazionale

ore 19.45
Compagnia Berardi/Casolari presenta:
Amleto Take Away
 
ore 22.15
Luca Scarlini in:
Se permettete parliamo di donne.

Racconti in rosso e nero di donne avventurose della scena tra ‘800 e ‘900

Questa voce è stata pubblicata in 2018, Castiglioncello e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

I commenti sono chiusi.