Biennale Architettura 2023: i padiglioni nazionali ai Giardini

Il Leone d’Oro alla Carriera all’architetto nigeriano Demas Nwoko, il Padiglione Centrale ai Giardini della Biennale dove Leslie Lokko espone il proprio progetto di curatela per la 18. Mostra Internazionale di Architettura e le installazioni nazionali.

Varcato l’ingresso dei Giardini della Biennale di Venezia uno dei primi edifici in cui i visitatori si imbattono è il Padiglione del libro, realizzato su progetto di James Stirling e inaugurato nel 1991 in occasione della 5. Mostra Internazionale di Architettura curata da Francesco Dal Co. Nell’edificio ispirato ai casoni che punteggiano la laguna veneta è allestita una piccola mostra fotografica delle architetture di Demas Nwoko insignito quest’anno del Leone d’Oro alla Carriera. L’architetto, nato nel 1935 a Idumuje-Ugboko nella Nigeria meridionale, è una figura poliedrica che riversa nella pratica dell’architettura le proprie abilità di scultore, designer, scrittore, scenografo, critico e storico. Lesley Lokko con questa sua scelta – avvallata dal CdA della Biennale presieduto da Roberto Cicutto – premia un artista a tutto tondo votato alla creazione di “una miscela di modernità ed estetica africana come linguaggio autentico che rifletteva il crescente spirito di indipendenza politica negli anni Quaranta e Cinquanta. Questo profondo desiderio di fondere e sintetizzare piuttosto che di spazzare via, ha caratterizzato il lavoro di Nwoko per oltre cinquant’anni. È stato uno dei primi creativi nigeriani dello spazio e della forma a criticare la dipendenza della Nigeria dall’Occidente per i materiali e i beni importati, oltre che per le idee, ed è sempre rimasto impegnato nell’utilizzo delle risorse locali”.

La tappa successiva è il Padiglione Centrale dove, nella sala principale a doppia altezza, la curatrice Lesley Lokko sospende al soffitto frammenti delle planimetrie di tutte le partecipazioni a The Laboratory of the future visitabili nello stesso Padiglione, alle Corderie e alle Artiglierie, alle Gaggiandre e a Forte Marghera. L’installazione ha una componente ludica nell’invitare i visitatori a riconoscere ciascun frammento e a identificare in quella nuvola apparentemente caotica il principio che possa aver guidato la curatrice nel disporli; al contempo esorta idealmente a creare nuove connessioni tra le idee, le forme e gli spazi che le contengono dando così vita a una propria visione del futuro.
Tra i practitioner – termine utilizzato dalla curatrice per indicare gli invitati a esporre in Biennale, da un lato a unificare le molteplici discipline coinvolte e dall’altro a sottolineare come siano ancora in quella fase della vita in cui sono disposti a mettersi in gioco, sperimentare e imparare – segnaliamo Olalekan Jeyifous, il vincitore del Leone d’argento per un promettente giovane partecipante. La scheda anagrafica indica che l’architetto di origini nigeriane ma con studio da anni a Brooklyn ha 45 anni. Un’età in cui si è già raggiunta una discreta maturità ma in una professione come l’architettura, dove l’idea di abbandonare il tavolo da disegno e godersi la pensione non sembra minimamente sfiorare i professionisti, tutto sommato, in termini relativi, può risultare ancora acerba. Jeyifous crea la sala d’attesa di un aeroporto del futuro, parte di una rete di trasporto multimodale che sfrutta tecnologie avanzate e carburanti ecologici, sito nella pianura alluvionale di Barotse in Zambia, in uno degli insediamenti sperimentali realizzati dall’African Conservation Effort nell’ambito del progetto All-Africa Protoport. I colori vivaci – ripresi dalla bandiera nazionale – degli arredi dalle line semplici e i poster alle pareti strizzano vistosamente l’occhio agli anni Settanta. Noi sorridiamo ritrovandoci per un attimo immersi nell’immaginario mondo de I Pronipoti mentre la giuria della Biennale gli riconosce il merito di “allargare le prospettive e l’immaginazione del pubblico, offrendo visioni di un futuro decolonizzato e decarbonizzato”.
Poco oltre sono visibili The Uhuru Catalogues con cui Thandi Loewenson si aggiudica una delle Menzioni Speciali della Giuria per “una pratica di ricerca militante che materializza storie di spazi di lotte per la terra, estrazione e liberazione attraverso il mezzo della grafite e della scrittura speculativa come strumenti di progettazione”. Uhuru è un termine swahili traducibile con “libertà” o “indipendenza”. Loewenson con questa serie di pannelli realizzati con una stratificazione di grafite industriale punta il dito contro i risvolti negativi della transizione ecologica. Questo minerale è largamente impiegato nella produzione delle batterie agli ioni di litio utilizzate per le tanto osannate automobili elettriche tuttavia il Nord del pianeta sembra ignorarne gli effetti nefasti legati al processo di estrazione: episodi di sfruttamento della manodopera, emissione di alti quantitativi di sostanze inquinanti nell’aria e di espropriazione di terreni. Effetti nefasti che dovrebbero indurci ad approfondire meglio l’origine e i risvolti di una scelta prima di etichettarla come “ecologica” e volerla imporre al mondo con gran sussiego.

Leslie Lokko è da più parti accusata di aver lasciato ampio spazio a idee, tradizioni e arte a discapito dell’architettura. Sir David Adjaye, architetto di origini ghanesi con studi ad Accra, Londra e New York, con l’installazione Adjaye Futures Lab ricorda ai visitatori che progettare è “un atto sociale” complesso. Utilizzando lo strumento principe della narrazione architettonica, il modello in scala, e contributi video Adjaye reca esempi del proprio lavoro a testimonianza dell’impegno profuso nel comprendere e rispettare la storia del luogo di intervento e della comunità che vi insiste, creando al contempo qualcosa di completamente innovativo. Tra i progetti in mostra ci sono la National Cathedral ad Accra, la biblioteca intitolata all’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki a Riviera e il Newton Enslaved Burial Grounds a Bridgetown, Barbados.
David Adjaye è l’autore anche di Kwaeε, il prisma triangolare realizzato in legno nero che svetta in una delle aree esterne dell’Arsenale. Il fitto intreccio degli elementi che costituiscono la struttura e creano all’interno un suggestivo gioco di luci e ombre ricorda la foresta cui allude il nome in lingua twi, una delle principali del Ghana, assegnato alla costruzione. In virtù della posizione centrale, Kwaeε rappresenta un landmark, uno spazio di riposo e un palco per eventi di diversa tipologia a sottolineare un’ambizione a un suo uso flessibile e collettivo che faccia da eco alla filosofia progettuale degli edifici esposti al Padiglione Centrale.
Lo studio di architettura nigeriano atelier masōmī preferisce invece il disegno per illustrare tre suoi progetti: l’Hikma Community Complex in Niger, il Bët-bi Art Museum in Senegal e l’Ellen Johnson Sirleaf Presidential Center for Women and Development in Liberia, questi ultimi due in fase di realizzazione. In Process i tre edifici sono esposti attraverso disegni tracciati a mano sul muro, in omaggio alle incisioni neolitiche delle grotte del deserto del Sahara, accompagnati da video, piccoli plastici di studio e schemi a definirne le linee guida della progettazione.

La Giuria della 18. Mostra Internazionale di Architettura presieduta da Ippolito Pestellini Laparelli e composta da Nora Akawi, Thelma Golden, Tau Tavengwa direttore di Cityscape Magazine e da Izabela Wieczorek ha assegnato il Leone d’oro per la miglior Partecipazione Nazionale al Brasile per Terra [Earth] per una mostra di ricerca e un intervento architettonico che centrano le filosofie e gli immaginari della popolazione indigena e nera verso modi di riparazione”.
I curatori del Padiglione, Gabriela de Matos e Paulo Tavares, riflettono sulla nozione di terra, intesa sia come simbolo poetico sia come elemento concreto. Nella prima sezione intitolata De-colonizzare il canone si rievoca come Brasília, la capitale, non sia stata costruita in mezzo al nulla ma in seguito all’allontanamento delle popolazioni oriunde e alla distruzione di quello che era un importante punto di incontro e scambio tra le varie nazioni indigene del centro Brasile. De Matos e Tavares rifiutano la stereotipata esaltazione della città quale strepitoso manifesto di architettura moderna per definirne la costruzione l’ennesimo – e non ultimo – sopruso dei colonizzatori europei bianchi. La contro-narrazione del mito procede attraverso la rievocazione cronologica dei fatti accompagnata da foto d’archivio dei movimenti di protesta; è inoltre presente un’articolata riproduzione degli elementi caratterizzanti le abitazioni indigene a mostrare la sapienza maturata nei secoli per affrontare le avversità ambientali pur sempre nel rispetto del luogo, soluzioni che sovente richiamano quelle sviluppate dall’altra costa dell’Atlantico.
La seconda sezione, intitola Luoghi d’origine, archeologie del futuro, da un lato presenta studi scientifici in cui si dà evidenza del fatto che le terre indigene sono quelle meglio conservate del Brasile e dall’altro reca esempi virtuosi di progetti e pratiche socio-spaziali volte alla de-colonizzazione del territorio.
Il tema della spoliazione del territorio a opera del colonialismo è al centro anche di Unsettling Queenstown al Padiglione dell’Australia. Lo spazio espositivo è caratterizzato da una struttura sospesa in rame, a riproduzione del belvedere dell’Empire Hotel di Queenstown, in Tasmania. La città, fondata nel 1862, ospita un’importante miniera di rame e in occasione dell’evento veneziano è assurta a simbolo di tutti gli ampi territori sottratti agli aborigeni per aprire miniere, compromettendo per sempre la qualità ambientale dell’area e cancellando i segni delle genti che vi hanno dimorato per millenni.

La Menzione Speciale della giuria è stata invece assegnata al Padiglione del Regno Unitoper la strategia curatoriale e le proposte progettuali che celebrano la potenza dei rituali quotidiani come forme di resistenza e come pratiche spaziali nelle comunità della diaspora”. Le opere qui esposte sono probabilmente la perfetta testimonianza addotta da quanti vedono l’edizione della Biennale in corso deviare dall’architettura all’arte. Dancing Before the Moon combina i talenti di sei giovani creativi che meticciano architettura, design, arte, grafica e performance: ciascuno di loro espone un’opera realizzata attingendo al sapere artigianale e alle culture di alcune di quelle comunità di immigrati che rendono Londra – e il Regno Unito in genere – uno straordinario laboratorio multietnico.

Alla destra del Padiglione britannico sorge quello della Francia per l’occasione trasformato in una sorta di teatro di avanspettacolo dove va in scena l’ultimo ballo prima della definitiva chiusura. Il titolo La festa è finita allude alla crisi economica in corso da svariati anni e alla improrogabile necessità di tagliare sfarzi, sprechi e divertimenti non più sostenibili. La struttura emisferica che cattura la vista entrando, un oggetto a metà via tra la sfera stroboscopica da discoteca, il mappamondo e il cenotafio di Newton progettato da Boullée, funge da palcoscenico per l’esibizione di un gruppo di drag queen. Le sale circostanti, più piccole, ospitano ora il camerino degli artisti con i costumi di scena ben allineati sul tavolo, ora un set fotografico.
Alla sinistra gli fa da contraltare il Padiglione della Germania con l’installazione Open for Maintenace. La sala principale è adibita a deposito dei materiali di recupero provenienti dagli allestimenti della Biennale Arte 2022, attentamente ordinati per tipologia mentre, sempre con parte di quei materiali, nelle stanze attigue sono ricreati un’officina, una cucina e una sala dove artigiani esperti coinvolgeranno nei prossimi mesi associazioni locali, studenti e apprendisti in corsi di manutenzione e recupero di oggetti e strutture architettoniche.
In Vivo, l’installazione approntata al Padiglione del Belgio, affronta il tema della sostenibilità ambientale presentando una struttura ecologica realizzata esclusivamente con terreno di scavo, legno e micelio – la parte vegetativa dei funghi –, materiali di cui se ne descrivono meticolosamente le caratteristiche, le tecniche di produzione e l’uso in architettura,
Di rimando al Padiglione degli Stati Uniti si fanno i conti con i polimeri a base di petrolio che in questo Paese hanno visto la luce. Materiali dagli innumerevoli pregi nonostante nel tempo abbiano dimostrato la propria indistruttibilità, finendo per saturare le discariche e inquinare l’ambiente naturale. Tra le possibili strategie di riciclo c’è anche quella avanzata da Simon Anton che, fissando rifiuti di plastica su armature metalliche, crea oggetti decorativi.

L’architetto Carlijn Kingma è l’autrice dei disegni della serie Plumbing the System esposti al Padiglione dei Paesi Bassi, eseguiti con la consulenza di economisti di fama internazionale per descrivere i flussi finanziari. Il percorso di visita culmina in The Agora of Democratic Money in cui si ipotizzano tre utopistiche soluzioni per una più equa distribuzione del denaro nel mondo. L’acqua, un bene sempre più prezioso man mano progredisce il cambiamento climatico, è la metafora utilizzata da Carlijn Kingma per alludere al denaro, immaginando venga distribuita tramite un sistema di tubature e acquedotti talmente pittoresco e intricato da far impallidire il connazionale Escher.
Ha un tono bizzarramente provocatorio l’esposizione Huussi – Imagining the Future History of Sanitation al Padiglione della Finlandia. Hussi è una toilette a secco basata sulle soluzioni in voga nelle regioni più remote del Paese, un sistema che da un lato non prevede inutili consumi di acqua e dall’altro produce utile fertilizzante per l’agricoltura. Al di là dell’oggetto in sé è meritevole la spinta data dai finlandesi al tema del riciclo e della riduzione dello speco idrico in architettura, spingendo – come visto in altri casi nel corso della visita alla Biennale – al recupero di tecniche avite.
Bodies of Water è l’interessante presentazione al Padiglione della Grecia del complesso sistema di dighe e laghi artificiali realizzati nella penisola ellenica, a partire dagli anni Trenta, per rendere coltivabili ampie distese di terreni aridi. Una rassegna ordinata di schede tecniche, foto d’archivio e riproduzioni dell’orografia di intere regioni spiega come l’ingegno umano possa aver smosso ampie masse d’acqua attraverso il Paese.
Al Padiglione della Danimarca si riflette invece sulle strategie per proteggere i propri territori costieri – che rappresentano ampia porzione del confine nazionale – dal progressivo innalzamento del livello dei mari, anche in questo caso attingendo a tecniche ancestrali. Una sezione del Padiglione è inoltre dedicata a una ricostruzione della costa dinnanzi Copenaghen per consentire ai visitatori di immedesimarsi nella visione che la Sirenetta oggi avrebbe emergendo dalle acque del mare, tra rifiuti abbandonati sulla spiaggia, centrali elettriche e scarichi abusivi.

Al Padiglione della Spagna Foodscapes propone un’esplorazione in cinque tappe delle architetture e dei rituali legati al cibo. Digestion, Consumption, Distribution, Production e Foundation: questi i titoli degli episodi proposti dai curatori non in sequenza lineare e proiettati in altrettante sale dell’edificio. Le inquadrature dei video sono molto strette, concentrate sugli alimenti più che sulle architetture in cui si muovono, allargandosi eventualmente il minimo necessario a mostrare i movimenti delle mani o dei macchinari eseguiti in ciascuna fase, nel corso del lungo processo che dal campo porta alla mensa popolare, senza dimenticare il passaggio finale di pulizia di piatti e padelle in vista del pasto successivo.

Al Padiglione dell’Ungheria è presentato il Museo Etnografico di Budapest progettato da Napur Architect e inaugurato nel 2022. L’edifico, insieme alla nuova Casa della Musica, è parte di un più complesso intervento denominato Liget Budapest che interessa i 100 ettari del parco cittadino, le funzioni ricreative, la riqualificazione e l’ampliamento delle istituzioni culturali ivi presenti e la realizzazione di nuove.
Al Padiglione del Canada si affronta invece il tema della casa dando visibilità alla campagna Non in vendita! degli AAHA – Architects Against Housing Alienation finalizzata a imporre un radicale cambiamento nelle modalità di progettazione, produzione e distribuzione degli alloggi. Ai visitatori gli AAHA espongono le diverse azioni che li vedono coinvolti, presentando idee e progetti per rendere il mercato immobiliare canadese più equo e accessibile a tutte le fasce di popolazione.
Al Padiglione della Corea del Sud, trasformato in un’ampia postazione per videogiochi, ci si interroga sull’evoluzione delle relazioni sociali da oggi al 2086, in un contesto in cui si è sempre più isolati man mano si è più connessi. Un isolamento peculiare anche dei migranti il cui flusso sembra destinato ad aumentare nei prossimi anni con conseguenti problemi di espansione urbana e integrazione sociale.

Uno sguardo va indubbiamente dato al Padiglione della Svizzera dove la totalità dello spazio a pavimento è occupata da un folto tappeto bianco in cui sono tessute le planimetrie del Padiglione svizzero, progettato da Bruno Giacometti, e dell’adiacente Padiglione venezuelano, ideato da Carlo Scarpa. L’opera dell’artista Karin Sander e dello storico dell’architettura Philip Ursprung riproduce i disegni originali, con le linee tracciate a china con un movimento deciso e le scritte a mano, con carattere pulito ma elegante. L’intento è evidenziare l’affinità tra i due edifici, pressoché coevi, e i due architetti, argomento approfondito nei mesi a seguire grazie a una serie di conferenze previste sia al Padiglione sia a Palazzo Trevisan degli Ulivi, sede della Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia e del Consolato svizzero.

Uscendo è impossibile non gettare un occhio al Padiglione della Russia che per il secondo anno consecutivo resta chiuso al pubblico e presidiato da guardie nel timore di atti vandalici. Lo scorso anno, allo scoppio della guerra russo-ucraina, il curatore si dimise e la delegazione decise di ritirarsi autonomamente dalla Biennale Arte. In occasione della Biennale Architettura direttamente non è stata avanzata nessuna richiesta di prendere parte all’evento.
È un peccato non poter avere il contributo di una Nazione così vasta a The Laboratory of the future promosso da Lesley Lokko pur capendone il desiderio di voler evitare contestazioni: non serve infatti star qui ad argomentare quanto le diverse forme di espressione artistica possano essere una modalità di enunciazione della politica ben più efficace di mille discorsi.

Silvana Costa

La mostra continua:
Giardini e Arsenale
Sestiere Castello – Venezia
fino a domenica 26 novembre 2023
orario:
20 maggio – 30 settembre 11-19
1 ottobre – 26 novembre 10-18
ultimo ingresso 15 minuti prima della chiusura
solo sede Arsenale: venerdì e sabato, fino al 30 settembre, apertura prolungata fino alle 20
chiusa il lunedì, a eccezione del 22 maggio, 14 agosto, 4 settembre, 16 ottobre, 30 ottobre e 20 novembre
www.labiennale.org/it/architettura/2023

Biennale Architettura 2023
18. Mostra Internazionale di Architettura
The Laboratory of the Future
a cura di Lesley Lokko

Catalogo:
Biennale Architettura 2023
The Laboratory of the future
a cura di Lesley Lokko
graphic design Die Ateljee – Fred Swart
La Biennale di Venezia, 2023
2 volumi 21 x 27 cm, pagine vol.1 450 ca. / vol.2 220 ca., fotografie vol. 1 350 ca. / vol.2 200 ca., paperback con cofanetto
prezzo 80,00 Euro

Guida breve:
Biennale Architettura 2023
The Laboratory of the future
a cura di Lesley Lokko
graphic design Die Ateljee – Fred Swart
La Biennale di Venezia, 2023
15 x 20 cm, 240 ca pagine, paperback
prezzo 18,00 Euro

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